Le Mie Cadute: Il Mio Rinascimento
Guardando per la milionesima volta la trilogia di Batman di Christopher Nolan, nello specifico Batman Begins, e ancor più specificamente la scena in cui vediamo un giovane Bruce Wayne cadere in una buca e in quella successiva il padre del ragazzo scendere a recuperarlo, ho messo in pausa il video e riflettuto più a lungo del solito sull’unica frase che viene detta in tre minuti di girato: «Sai perché cadiamo, Bruce? Per imparare a rialzarci.» Folgorato da una specie d’illuminazione, ho pensato che non sarebbe stata un’idea malsana parlare un po’ di come anch’io abbia imparato a rimettermi in piedi.
Riflessione #107
Nel mio lungo peregrinare, e tirando le somme con tutto ciò che ho visto, sentito e vissuto (anzi, disgraziatamente avuto a che fare), ho appreso che la natura del mio essere non risiede nella forza fisica, bensì nell’intima capacità di resistere e di non perdermi nello sconforto. Educato dalle incalcolabili prove sostenute, dai ruzzoloni subiti e dalla risolutezza (attraverso la quale, più volte, sono riemerso discernente più di quanto non lo fossi nel momento in cui il mio piede cadeva in fallo) ho fatto come Bruce Wayne nell’acclamata serie del cavaliere oscuro di Nolan: sono caduto per imparare a rialzarmi.
Usando magari un’espressione più adatta, la resilienza è il mio ufficiale di navigazione, una sorta di angelo custode che traccia la giusta rotta da seguire, assicurandosi che io non abbia ad andare alla deriva finendo incagliato da qualche parte. Sperimentandone gli effetti su di me, sono giunto alla personale conclusione secondo la quale suddetta virtù non soltanto è un atto d’insurrezione verso il mondo, ma un costante mettersi in gioco contro paure interiori, incertezze e auto-limitazioni. È la macchina motrice invisibile che, rombando e sbuffando, mi spinge a raggiungere, e a quel punto oltrepassare, i confini della mia stessa percezione.
Il percorso che mi ha condotto fin qui è stato tutto tranne un viaggio di piacere, e mentirei se dicessi che si è trattato di un cammino privo di ostacoli (quando mai s’è sentito qualcuno affermare il contrario?), ma non sono qui per fare la vittima, Fedele Lettore, né tantomeno per elemosinare la tua compassione piangendoti sulla spalla. Le tempeste della vita (metafora grossa, oh) hanno sferzato la mia anima perché la burrasca la gettasse oltre il ponte ma, così facendo, ogni colpo di vento non ha fatto che rafforzare e temprare ciò che ero pronto a diventare (bella rima).
Ho perso il conto di quante volte la paura, viscida, insidiosa e tentacolare, mi ha afferrato per la gola e stretto con la sua gelida morsa. Diavolo se c’è riuscita, ma per non farmi ammazzare ho imparato a mantenere la calma. Fissandola negli occhi, per nulla sprezzante, anzi, più che determinato a far valere le mie ragioni, ho smesso di muovermi, poiché consapevole che quanto avevo davanti era il riflesso di ansie prive di logica. La paura è un’ombra, e quel che c’è in me (la mia arte e tutto il resto) è più potente di qualsiasi oscurità possa generare.
A dispetto di un approccio incentrato sul clamore della forza fisica e l’apparenza di dominio, mi sono reso conto (non senza averci quasi rimesso la pelle) che la grandezza d’animo si cela nell’umiltà della quiete. Almeno per quanto mi riguarda, non ho bisogno d’urlare per farmi sentire, poiché la silenziosità della resistenza, mista all’irruenza delle mie parole, fa più rumore di una turbina in fase di rodaggio. La mia identità non è conformata da quanto riesco a sollevare o da quante bocche riesco a zittire, ma dall’abilità di rimanere saldo quando la realtà attorno a me crolla su sé stessa.