Per ognuno di noi appassionati di musica jazz ci sono dei musicisti che colpiscono il nostro immaginario sonoro a cui si vuole bene, come uno zio a cui siamo legati da un affetto profondo, John Scofield è uno di questi. Sebbene è solo di sei anni più grande di me lo considero uno zio.
A Roma è anche un appellativo per chiamare un amico, ‘Bella zi’’, quindi, il cerchio si chiude con una parentela non di sangue ma di affinità elettiva. Mi accingo ad ascoltare il doppio disco dell’ECM appena fresco di arrivo, la band dello zio John. L’ECM in questo caso lontano dagli schemi eterei di tanta sua produzione che dovrebbe, dico ‘dovrebbe’ mettere d’accordo anche i più riottosi critici verso l’etichetta tedesca.
Il primo brano è un omaggio, non il primo, al grande menestrello Bob Dylan con il suo celeberrimo Mr. Tambourine man’. L’omaggio è solo il richiamo al tema della bellissima canzone folk icona degli anni ’60, considerata da più parti tra le cento più belle canzoni di sempre. L’approccio è ‘country’ un country jazz sperimentale, lontano dagli stereotipi del genere, influenza che al pari di altre formano l’universo sonoro del nostro. Una rielaborazione in chiave jazz di quel mondo, il mondo del ‘folk’ americano. Poi il brano si snoda con l’improvvisazione sghemba, spigolosa, obliqua dello stile chitarristico di John Scofield, assecondato dall’accompagnamento al contrabbasso di Vicente Archer che si produce in un solo prima del tema finale e dal ‘drumming’ di Bill Steward. Con ‘How deep’ si cambia registro, finalmente in questo brano c’è la riappacificazione con l’etichetta tedesca per i suoi detrattori perché si ritrova il beat, jazz 100% che tanti ascoltatori fanno fatica a trovare nella produzione recente, delle serie: anche l’ECM ha un’amina ‘swing’ moderna, incredibile ma vero. A questo punto sarei tentato di usare la parola chiave che in tante circostanze viene usata per descrivere l’empatia musicale del trio, sarei tentato di usare la parola ‘interplay’ ma non lo farò, anzi l’ho fatto ma solo per dire che non l’avrei fatto, mi limiterò a parlare di generica ‘sintonia’.
‘Tv band’ si connota con l’altra influenza del nostro, il ‘funky’, un funky elegante, jazzistico o para jazzistico per i puristi più ostici. ‘Back time’ si articola in punta di piedi anzi in punta di mani, il beat è fluido, ma è una fluidità, a tratti irregolare, che deve conciliare la storia con la modernità, una fluidità che mescola sapientemente le capacità del trio. La matrice ‘country’ riecheggia, ma è un bel richieggiarsi, la ritmica accompagna il leader nelle praterie del midwest dell’Ohio, lo stato d’origine del chitarrista. Con ‘Budo’ la composizione di Miles Davis e Bud Powell si ritorna momentaneamente allo swing delle metropoli, ‘original jazz’. Con ‘Nothing is forever’ si ritorna alle atmosfere consuete del leader, un misto di sonorizzazioni tramite arrangiamenti armonici particolari, così originali e linee melodiche taglienti.
‘Old man’ è un altro omaggio ad una grande della canzone americana, Neil Young anche se canadese di nascita e qui un bel assolo di Vicente Archer al contrabbasso. La facciata 3 del secondo disco inizia con ‘The girlfriend chord’ (Gli accordi con la fidanzata) un gran bel pezzo jazz, qui non accetto discussioni sul ‘jazz si, jazz no’, jazz punto e basta. ‘Gli accordi con la fidanzata’, con la mia fidanzata, li ho fatti, non la porterò più a concerti jazz perché ogni volta ha da ridire sulla valenza di questa musica meravigliosa. È una palla al piede da questo punto di vista, poi però sa come farsi perdonare da cotanta offesa estetica, con lei sono costretto a sentire la musica pop, la parte più bella di questa musica. ‘Stairway to the stars’ una ballad intramontabile suonata alla ‘old school’ e qui la diaspora degli appassionati di jazz si riunisce in nome della tradizione e il mirabile Archer contrabbassista sfodera un bell’assolo e Stewart il batterista, a forza di roteare le spazzole, ha talmente spazzolato che il brano luccica a livello ritmico. ‘Mo green’ chiude la terza facciata, un finale con il tema evanescente, ma la costruzione dell’assolo, da apparente ‘ubriaco’, ha un suo perché e anche quando il pezzo sembra ‘facile’, qua e là vengono disseminate trappole dissonanti, per cui mai rilassarsi completamente con i pezzi apparentemente facili di zio John. Mi pace lo stile di zio perché è un guazzabuglio di influenze che lo rendono originale. ‘Mask’ apre la quarta facciata. All’inizio sembra un intro di George Benson, forse è un omaggio al chitarrista o sono le mie orecchie che fanno cilecca. Il ritmo è funky, funky jazz e per questa capacità di mescolare gli stili che piaceva al divino Miles.
La ritmica è all’altezza di sua altezza Zio e Stewart il batterista dimostra di che pasta è fatto.’Somewhere’ un’altra celeberrima ‘ballad’ fa ritornare il trio all’ovile della tradizione e gli accordi che esprime il leader sono veramente di alto livello, dovremmo mandarlo a discutere con i potenti della terra, perché sono accordi che non possono essere rifiutati, sono accordi che esprimono armonia universale. ‘Ray’s idea’ l’idea di Raymond Brown, una bella idea che sgorga dalla gloriosa tradizione e qui il trio non si fa guardare dietro da possibili contaminazioni indesiderate. Il doppio disco si chiude con un ultimo omaggio ad un altro gruppo ‘country rock’ i celeberrimi Grateful dead’ di Gerry Garcia che è anche il titolo del disco ‘Uncle John’s band’. Anche lo zio Gerry, insieme allo zio Neil e lo zio Bob, come compositori e lo zio John compositore ed interprete, lo zio Vicente e lo zio Bill come musicisti, hanno fatto di questa riunione di famiglia una bella riunione allontanando lo spettro, sempre in agguato, dei parenti serpenti.