Brad Meldhau -Auditorium parco della musica

Ho almeno tre rimpianti nella vita, il primo è quello di non essermi laureato, il secondo di non saper parlare fluentemente l’inglese, il terzo quello di non aver mai visto dal vivo Keith Jarrett, qui potevo rimediare con la prontezza dell’acquisto dei biglietti dei concerti, ma mi sono sempre fatto fregare sul tempo. In realtà ho dimenticato un quarto rimpianto, quello di non essere andato a Milano nel 1981 a vedere il più bel concerto di Bob Marley a San Siro. Come dite? Che c’entra Keith Jarrett con Bob Marley? Niente, o forse sì, ma sarebbe troppo lungo da spiegare, ma non c’è contraddizione, almeno per me, sarebbe stato bello vederli entrambi dal vivo. Ma che c’entra tutto questo con Brad Meldhau? Penserete. Brad Meldhau non c’entra con Bob Marley, ma c’entra con Keith Jarrett per quanto riguarda la musica che li accomuna, mentre c’entra con Bob Marley in riferimento ai concerti dal vivo.
Sono arzigogolato?
Si lo sono, mi piace essere arzigogolato e mi piace anche la parola ‘arzigogolato’. Non trovate? Lo so, non potete rispondere, la mia era una domanda retorica. Mentre ripenso al concerto di qualche giorno fa di Brad Meldhau, metto a palla la musica del disco del Nostro, ‘The art of trio’ del 1996 con Jorge Rossy alla batteria e Larry Granadier al contrabbasso. Mentre sfreccio sulla Tiburtina all’altezza dell’incrocio di via di San Basilio prima di immettermi a via di Tor Cervara la musica del trio esce dall’abitacolo e rimbalza sui muri della fabbrica dell’ex Snia Viscosa, o quello che resta di quell’edificio abbandonato, un monumento al degrado, poi cade sull’asfalto della grande consolare e rientra magicamente nella radio. La magia della musica mi rende tollerabile l’incuria e l’abbandono, faccio a gara a chi tiene la musica ad alto volume con le altre automobili in transito. Sono un coatto con la musica a palla e con il gomito appoggiato al finestrino? Forse un po’ si, ma espandere musica jazz in periferia è sfizioso e per niente fuori luogo. A Memphis la città del ‘Soul’ o a New Orleans, tutti ascoltano la musica a palla, chi in bicicletta, chi in macchina chi in moto, chi a piedi e mica sono tutti coatti, gli piace ascoltare la musica in piazza, sulla pubblica via. Se abitassi a Memphis o a New Orleans, andrei in giro con la bicicletta con una bella cassa sul portapacchi. La sto prendendo alla lontana, sto divagando, ma è una divagazione in musica. Ritorno con la mente al concerto. Con il mio amico Emi, decidiamo in ‘Zona Cesarini’ di acquistare i biglietti, stavolta non mi faccio fregare. Il grande ‘Keith Jarrett trio’ è defunto, intanto perché il contrabbassista Gary Peacock è morto nel 2020 (R.I.P.) e il maestro Jarrett nel 2018 ha avuto due ictus che gli hanno parzialmente bloccato la mano sinistra. Jack De Johnette è rimasto orfano. Brad Meldhau è considerato il degno erede dei grandi pianisti bianchi, dei già citati Keith Jarrett e di Bill Evans. Viste queste considerazioni la curiosità di vederlo dal vivo è tanta, anche se credo che Keith Jarrett sia inarrivabile. Ci sistemiamo nella galleria dell’auditorium della sala Sinopoli. Peccato che abbiamo fatto tardi i biglietti e non siamo in platea, vicino ai musicisti, i concerti sono belli da sentire ma anche da vedere.
La sala è piena
Gli strumenti sono sistemati al centro del grande palco, molto vicini tra loro, quasi una sistemazione da ‘Club’. Un bel colpo d’occhio e l’atmosfera sacrale della sala da concerto mi fa venire la pelle d’oca. La formazione comprende il già citato batterista spagnolo Jorge Rossy presente in molti album del leader fino al 2005 poi sostituito da Jeff Ballard e di nuovo in concerto a Roma. Al contrabbasso un giovanissimo contrabbassista danese Felix Moseholm che già aveva suonato con Brad Meldhau nel 2020 a soli 23 anni. Diciamo una rimpatriata per Rossy e una riconferma per il contrabbassista danese che sostituisce il fido Larry Grandier che ha inciso con il leader una decina di album. L’atmosfera sacrale non comprende l’estrazione e l’esibizione dei cellulari che riprendono il concerto, tanto in voga in altri tipi di concerti, con le persone che vedono il concerto filtrato dallo schermo del cellulare.
Qua e là qualcuno lo accende per riprendere il concerto vietato dall’organizzazione, ma siamo italiani e qualcuno che viola le regole ci deve essere, ma sono una sparutissima minoranza. Il silenzio è assoluto e la concentrazione consequenziale.
E’ tutto pronto
Il trio inizia a suonare e già dal primo brano in scaletta si preannuncia un grande concerto di jazz, del classico trio jazz. L’abilità al piano di Meldhau è evidente dalle prime battute, una completa padronanza dello strumento. Il virtuosismo non è fine a sé stesso, come a volte è per qualche musicista, ma è inserito in un contesto dove si privilegia l’ispirazione, la padronanza tecnica al servizio dell’estro. Il pianista è di spalle ed è un incanto sentirlo suonare, sembrerebbe dotato di quattro mani, l’incarnazione della dea Kali sulla tastiera. Un’indipendenza assoluta delle mani, le mani sovrane e indipendenti che creano vorticosi giri armonici e melodici, all’apparenza semplici ma ad un ascolto attento complicati e sofisticati. La bravura del pianista sta nel farli sembrare semplici ed elementari; Sherlock Holmes, digiuno in fatto di musica, direbbe al suo collaboratore: “Elementare Watson?”, ma Watson, appassionato e competente, risponderebbe al suo capo: “Per niente Sir”.
La Scaletta
I ritmi dei pezzi in scaletta cambiano impercettibilmente ma la sostanza no, il trio delle meraviglie continua imperterrito ad elaborare trame, ma le trame in questione non sono oscure, sono chiare come il suono cristallino che il trio fa fluire dalle casse a volume moderato che però arrivano nitide anche nella parte superiore della galleria. Le ballads in repertorio fanno risaltare il virtuosismo nell’arrangiamento istantaneo e le capacità improvvisative del trio. Il giovane contrabbassista danese esegue dei mirabili assoli come il batterista spagnolo che assecondano alla perfezione la direzione discreta del leader, fedeli al motto, assecondatelo e non contradditelo, potrebbe essere pericoloso. Brad Meldhau non solo non è pericoloso, ma ispira alla pace interiore. Potremmo far ascoltare al fronte delle guerre in corso questa musica, magari i soldati potrebbero smettere di sparare e creare la pace esteriore.
Sono un figlio degli anni ’70
Lo so ho è una ‘boutade’, ma sono figlio degli anni ’70 dove l’utopia si immaginava e immaginare non costa nulla, la musica jazz al fronte come elemento di concordia. Immancabile l’omaggio alla cultura italica con ‘Estate’ di Bruno Martino che è l’ennesima riproposizione della celebre canzone. Il trio ha suonato alla perfezione, ma se proprio devo trovare il pelo nell’uovo, anche se non sono amante della ricerca dei peli nell’uovo, ma proprio per spaccare il capello, (a quanto pare funzionano le metafore sui peli e sui capelli) forse troppa perfezione, mai un deragliamento, un guizzo di altro tipo, una fuga in avanti, un lampo nel buio. Come il verde pubblico e privato in Svizzera, un ordine quasi irreale, stucchevole, una visione da cartolina, un quadro dipinto nel paradiso, un paesaggio alla ‘Truman Show’. Però, ripensandoci, accetto di buon grado la perfezione del trio e del verde pubblico e privato svizzero, allontano i peli e i capelli, e rimango con il profumo del classico in jazz, uno straordinario ed immortale classicismo in jazz.

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