Micro uniVersi – Intervista a Stefania Giammillaro

Chi scrive è in perenne debito con ciò che dai più viene definito ‘dono’.

Ben ritrovati! Oggi su Vite Narranti, nell’ambito delle interviste condotte per lo spazio di “Micro uniVersi”, ho la gioia di poter ospitare e dare visibilità ai pensieri preziosi di Stefania Giammillaro, avvocatessa, poetessa e non solo.

Il Micro UniVerso di Stefania
Bentrovata Stefania e grazie per aver ritagliato un po’ di tempo per farti conoscere meglio. Come è usuale, per dare una inquadratura generale, ti chiedo di raccontare un po’ di te se hai piacere, facendo sapere chi tu sia, e come sia caratterizzata la tua quotidianità.

Innanzitutto desidero ringraziare te, Lorenzo, per l’invito a questa intervista. Ebbene, la mia quotidianità si divide tra l’esercizio della professione forense e qualche collaborazione nel mondo accademico, oltre che l’immancabile poesia; sono quindi avvocato e dottore di ricerca in Diritto Processuale Civile, titolo conseguito presso l’Università di Pisa. Mi ritengo una voce un po’ fuori dal coro, insomma, in quanto ho sì una formazione classica ed umanistica, ma non sono una professoressa di lettere o di filosofia, sebbene entrambe discipline siano state da me sempre profondamente adorate. Spesso, infatti, mi viene chiesto come sia possibile che la poesia attecchisca nell’ “arido” mondo del diritto; in realtà a mio parere è tutt’altro che arido, anzi, richiede uno sguardo, un’attenzione sull’uomo, sul suo vissuto.

Non ho potuto fare a meno di notare la tua inclinazione per il mondo poetico, motivo per il quale è nata la curiosità di volerne sapere di più. Quando è nata questa scintilla e da quanto ti accompagna?

La poesia, senza scadere in banale retorica, mi accompagna da sempre. Credo che abbia atteso giusto il tempo che imparassi a scrivere, ad elaborare i primi pensierini per presentarsi, o meglio, palesarsi, e non abbandonarmi mai. Dagli otto anni ad oggi è la mia unica costante e certezza, e la cosa forse ancora più incredibile è che non la assimilerei ad una scintilla, ad una folgorazione, quanto piuttosto ad “un sentire” che nasce con te e sta a te, poi, assecondarlo o meno.

Sei una scrittrice, e successivamente approfondiremo questo aspetto. Ma prima ancora ti domando: sei anche una lettrice appassionata? In questo ti chiederei di citarmi un libro molto significativo per te e perché proprio quello.

Leggo molto sì, ma devo ammettere che la passione per la lettura è venuta dopo, quasi come un’esigenza derivata dalla scrittura e non viceversa. Sebbene, mi sia capitato e mi capiti tutt’ora di attingere arricchenti riflessioni dalle mie letture o trovarvi  a volte in esse una inesauribile fonte di ispirazione, anche se a vincere, in questo aspetto, è sempre la vita e/o l’osservare il mondo che mi circonda. Se dovessi citarti un libro, anche se mi è davvero difficile sceglierne uno, ti direi a primo acchito “Lo straniero” di Albert Camus, consigliando vivamente di proseguire poi con la pièce teatrale “Caligola” e infine con “Il Mito di Sisifo”, completando così la trilogia di uno dei massimi esponenti dell’esistenzialismo, oltre che finissimo scrittore e poeta. Lo consiglierei perché è al contempo uno spaccato reale nel paradossale, che incoraggia il lettore nell’ indagare gli intestini più profondi della dimensione umana, stimolandone il tormento più che promuoverne l’atarassia.

Ho notato che ti occupi di diritto, quindi per mestiere hai a che fare spesso con un linguaggio ed un formato testuale molto distanti da quello a cui ci abitua la scrittura in versi. Secondo te, la tua professione, ed il tuo interesse per tale ambito, sono totalmente disgiunti dal fascino che hai per la poesia, o in qualche modo riesci a vederci un collegamento?

Senza saperlo ho anticipato la domanda, ma come accennavo, non mi sorprendo, molto spesso non ci si capacita di come concili (e non è detto che ci riesca, o meglio, non sempre) l’ambito giuridico con quello poetico, che, tuttavia, a mio avviso, non sono incompatibili. E’ ovvio che appartengono a linguaggi diversi, ma comunque non del tutto contrastanti, a volte possono financo aiutarsi reciprocamente, ma con la dovuta cautela. L’elemento che accomuna diritto e poesia è senza dubbio l’attenzione sull’uomo. Faccio sempre l’esempio delle trasformazioni giuridiche dell’esimio professore Angelo Falzea, uno dei più acuti ed illustri rappresentanti della scuola giuridica messinese, secondo cui: “se un lampo colpisce un fulmine è un fatto naturale, ma se in quel momento passa un uomo quel fatto diventa giuridicamente rilevante”. Ebbene, mi ha sempre affascinato, sin dalla prima materia preparata all’università, constatare come la presenza o meno dell’uomo funga da criterio discretivo per stabilire cosa sia giuridicamente rilevante e quindi meritevole di “attenzione” e di “tutela” da parte del diritto. E già questa constatazione per me non può non avere carattere poetico, questo “farsi dal nulla”, etimologicamente inteso, perché dal “nulla” l’uomo conferisce significato giuridico forse perché solo l’uomo può stabilire cosa sia il nulla ed essere in grado di parlarne.

Ho scoperto che nel tuo percorso hai avuto l’opportunità di pubblicare due libri. Il primo è “Metamorfosi dei silenzi” di EDAS Editore Messina (2017) e il secondo “L’ ottava nota. Sinfonie poetiche” edito da Ensemble (2021). Ciò che ti chiedo è di introdurre brevemente le tematiche trattate in questi due manoscritti, e la motivazione che ti ha portato a sceglierne il titolo. In più mi piacerebbe sapere se i due libri sono due mondi a sé stanti, oppure se siano tra loro uniti, magari da un percorso interiore che hai fatto.

Percorsi. Entrambi i libri parlano di percorsi immortalati in una dimensione spazio-temporale diversa, che si presentano poi come contenitori di diversi sguardi, universi, emozioni, sensazioni.

Il messaggio era diverso: il primo “Metamorfosi dei silenzi” (Edas, 2017) si proponeva di incoraggiare le giovani generazioni a non barricarsi dietro la vergogna, ma di esprimere tutta la loro sensibilità, il loro estro poetico o in generale artistico, senza temere, o comunque, con il desiderio di affrontare eventuali atti di bullismo e/o derisione. Ciò perché ancora nel 2017 (avevo da poco compiuto 30 anni, ma le poesie erano ovviamente antecedenti) e in quello che fino ad allora era tutto il mio mondo (purtroppo non solo “quando”, ma “dove” vivi fa la differenza), la poesia sortiva lo stesso effetto di un extraterrestre, meno interessante di E.T.

La seconda silloge, invece, è stata scritta dopo il trasferimento a Pisa, durante il lockdown causato dalla pandemia del Covid-19, e alla fine di un percorso di guarigione dall’anoressia che mi aveva purtroppo accompagnato negli anni precedenti; insomma, gli argomenti da trattare, o meglio, le considerazioni da ricavare erano parecchie. Ho scelto di chiamarla “Ottava Nota”, come la nota che racchiude e scardina le precedenti, un po’ richiamando il sesto senso aristotelico, e poi perché in realtà avevo già scritto sette raccolte poetiche, anche se ho iniziato a pubblicare solo a partire dalla settima, “Metamorfosi dei silenzi”, appunto.

Il pubblicare un libro, per te, deriva da un’esigenza, da una volontà di condividere le proprie sensazioni con le altre persone o da che altro?

In realtà viene tutto abbastanza spontaneamente. Da quando ho iniziato, non ho mai smesso di scrivere, almeno fino ad adesso, e salvo, ovviamente, qualche parentesi di riposo che definisco “stare a maggese”. Quindi, a mano a mano che raccolgo un buon numero di componimenti, mi rendo conto che gli stessi iniziano a comporre un puzzle, che reca con sé una tematica, un messaggio. Sembra assurdo, ma mi viene comunicato tutto dopo dalla poesia stessa. Ciò a confermare che in realtà chi scrive, è un mero strumento nelle mani di “qualcosa-Altro” che si serve di una penna o di un pc per trasporre tutto nero su bianco. Chi scrive è in perenne debito con ciò che dai più viene definito “dono”. 

Immagino – correggimi se sbaglio – che oltre a scrivere poesia, tu ne legga. A me personalmente capita di avvertire un “brivido di vertigine” quando incontro testi che davvero mi scuotono. Tu cosa provi invece? Ci sono delle caratteristiche ricorrenti che hanno i componimenti che più ti toccano?

Sì leggo tanta poesia, a prescindere dalle sillogi che leggo in occasione della Rassegne che organizzo o per le recensioni che scrivo. A me succede un po’ quello che descrive Carlos Ruiz Zafón nel suo capolavoro “L’ombra del vento”: è il libro che mi chiama, e quando succede quasi mai sbaglio ad ascoltarlo. Non posso profilare una caratteristica ricorrente, ma accade sicuramente che un libro mi trasmetta più di un altro, anche se riesco a trarre comunque tanto per migliorarmi. 

Una curiosità pratica sul tuo scrivere: utilizzi il titolo nelle tue poesie? In caso affermativo, ti domando se ti capita di scriverlo prima o dopo la stesura del testo, e perché secondo te. In caso negativo, invece, ti chiedo il perché non ne ravvisi la necessità

Fino alla “Ottava Nota” sì, ogni poesia aveva un titolo scelto rigorosamente alla fine se non addirittura dopo un po’ di tempo che la poesia fosse già “maturata”. Nelle poesie scritte successivamente, invece, non ho più sentito l’esigenza del titolo, anzi, a volte succede che mi infastidisce vederli nelle poesie che leggo, incluse le mie ovviamente. Chissà, sarà una malattia passeggera…

Scrivi quando senti di aver qualcosa da esprimere, oppure al contrario ti metti seduta davanti ad un metaforico foglio bianco senza aver ancora ben chiaro cosa uscirà fuori e ti lasci guidare dal flusso di quel momento?

Assolutamente la prima. Non esiste che scriva a comando e le volte che è capitato perché su richiesta, ho sfoderato i peggiori orrori mai scritti. La poesia va assecondata, mai comandata, anche perché quando succede si ribella, fa i dispetti e scrivi male. La poesia deve partire da dentro, come nodo allo stomaco che sale fino a soffocarti e tu sei costretta a lasciare quello che stai facendo per segnarti quell’appunto oppure per scrivere direttamente e accogliere quello che hai ben chiamato “flusso”. In altri termini, la c.d. “paura da foglio bianco” non ha praticamente il tempo di bussare alla porta per essere fatta accomodare fuori dalla finestra.

Secondo te come mai molte persone si avvicinano alla poesia, sia nel leggerla, nello scriverla, o nel praticarla più in generale; cosa dà loro? E soprattutto, cosa ha dato a te?

L’ingresso nella poesia edita, quindi a far data dalla mia prima pubblicazione, mi ha aperto un mondo al riguardo, consegnandomi strumenti di analisi che non potevo possedere prima. Su un piano strettamente statistico, che rifugge da qualsivoglia metro di carattere assoluto e/o universale, ho notato sia frequente l’avvicinarsi alla poesia come rifugio (passatemi il termine) “pensionistico”, in cui riscoprire o scoprire per la prima volta l’attitudine a questa passione, dopo anni dedicati all’esercizio di attività lavorative più o meno attinenti. Anche per questo spesso ho sentito tacciare di “perdita di tempo” la poesia e la sua pratica attiva e assidua rispetto a chi la abbini ad una professione ancora in atto, specie se reputata lontana da quell’ambito lavorativo. Più in generale, direi che chi si avvicina alla poesia desidera soddisfare il proprio bisogno di mettersi in discussione su un piano veramente intimo e profondo, ritrovando in versi quegli interrogativi esistenziali che a volte anche inconsciamente ci poniamo. E’ un darsi “erotico” (do ut des) per un ricevere agapico (gratuito), che ti arricchisce senza (apparentemente) chiedere nulla in cambio. 

Leggere poesia dovrebbe senz’altro costituire il primo passo specie se si inizia a coltivarne l’esercizio in età adulta. 

Il dolore come opportunità di crescita

Ho percepito l’aprirsi di Stefania nelle pensieri che ha deciso di condividere, e di ciò sono molto contento. In tutto questo, inoltre, è stata così cordiale da condividere quelli che saranno i suoi progetti futuri. La sua prossima raccolta infatti affronterà un argomento a mio avviso molto delicato, e necessario. Queste le sue parole:

Posso dire che l’uscita della mia terza silloge è davvero prossima. S’intitolerà “Errata Complice” e avrà come tematica trasversale la violenza psicologica nelle relazioni tossiche e sarà pubblicata dalla prestigiosa casa editrice PeQuod. Il dolore diventa un’opportunità di crescita e mezzo per creare una rete solidale tra persone che si ritrovano in esso e trovano in chi lo ha vissuto una carezza, un conforto, comprensione. Credo fermamente che per estinguere la piaga della violenza di genere occorre partire dall’ “in nome del Padre”, oltre che apprestare tutele ed interventi mirati in ambito giuridico.  

Per il resto, non ho altro che bolle in pentola…o forse sì…ma lo scopriremo solo vivendo! 

Concludo salutandoti e rinnovandoti il mio grazie più profondo e sincero. Raramente si rinviene tanta soddisfazione a rispondere a domande così accurate e puntuali. Grazie per la tua dedizione e cura e in bocca al lupo a te per tutto ciò che più desidera il tuo cuore realizzare. 

In chiusura di questa intervista, sottolineando come molto si evinca di Stefania già dai modi e dalle parole usate nell’intervista, riporto con gioia un suo componimento che ha scelto di condividere, inedito e, per citarla simpaticamente, “rigorosamente senza titolo”.

Bisognerebbe alzarsi presto
rifare il letto
e accudire l’ombra
che non ci somiglia.
 
Non somiglia alla sagoma
lasciata sul tetto
dell’ultima casa
né a quella incontrata
in piazza per caso.
 
Ci salutiamo, sì
con un cenno di mano
che esce appena dalla finestra
per paura del freddo
là fuori.

Somiglio. A cosa somiglio?
Al litro d’acqua medicinale
che mi sforzo di bere perché bere fa bene
e irrora lacrime versate.
 
La disidratazione resta.
 
Restano le labbra sottili
eredità della famiglia paterna
gli occhi grandi,
ma non quanto quelli di tua sorella.
 
A cosa somiglio?
A questa cappa che manca il respiro e
disegna un cerchio alla testa
dove mi perdo.
 
Somiglio. A questa bolla-rifugio
a doppia mandata
che dal vetro non si sente cosa dico.

Stefania Giammillaro

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