Vivere o Morire: A Me la Scelta
Mi ritrovo seduto qui, costretto ad ascoltare la sinfonia lamentosa di chi s’abbandona alla propria insoddisfazione. È come assistere a un’aria dissonante fatta di reclami, un concerto senza fine di individui che preferiscono crogiolarsi nel proprio malessere, piuttosto che affrontare la realtà (per quanto lurida e degradante credono che sia). Sarò sincero: mi stufa non poco assistere a questa roba qua. Senza sapere né come né perché, mi sembra di aver acquistato il biglietto per un dramma scritto e diretto dagli stessi protagonisti, le autoproclamate vittime inconsolabili di un dolore che nessuno, a detta loro, capirà e mai potrà capire.
Riflessione #194
In questo caso, Fedele Lettore, potresti dire: «Non te lo ha mica ordinato il medico di stare a sentire chi si lamenta.» E avresti ragione. Ma non ci riesco. Come una musica di sottofondo, tutti ‘sti piagnistei mi entrano nel cervello causando una dissonanza da far venire l’esaurimento nervoso. Certo, ci sono dolori veri, profondi come ferite, che mai si rimargineranno del tutto; questi li rispetto, li comprendo e se ne avessi la possibilità potrei anche offrire il mio sostegno. Nel frattempo, dalla parte opposta, c’è un’altra categoria di piagnucoloni, ossia quelli che trasformano ogni contrarietà in un’epopea di sofferenza.
Ecco, è questa specie di telenovela mal scritta, in cui i personaggi sono sempre perseguitati, che mi ha stufato. Alcuni di loro s’aggrappano al passato come a una coperta di sicurezza, riscaldandosi alle fiamme di vecchie incomprensioni e occasioni perse. Invece di prendere un bel respiro, alzare la testa e guardare avanti, preferiscono scivolare nel pantano dell’autocommiserazione, rievocando i rimpianti come un mantra autolesionista. Un po’ di tempo fa, non ricordo dove, ho letto che all’uomo piace il dramma perché aspira alla guarigione. Se diamo retta a chiunque abbia detto ‘sta cosa, significa che l’uomo è la fiera della contraddizione.
Invece di assumersi la responsabilità delle proprie azioni o farsi carico delle scelte compiute, questi soggetti si perdono nei meandri di scuse e giustificazioni, inventandosi di tutto. È come se avessero dimenticato che qualsiasi cosa un povero cristo decida di fare, è un loop continuo di decisioni (alcuni giuste, alcune sbagliate) che porta con sé responsabilità che non possono essere scaricate sugli altri o sul fato. Lamentarsi senza agire è come urlare al vento sperando che gli affanni volino via. Almeno per me, col caratteraccio che ho, è faticoso restare impassibile difronte a chi preferisce piangersi addosso anziché cercare soluzioni.
Con tutto il rispetto per il vero dolore (che non voglio assolutamente minimizzare, anzi, per il quale nutro profondissimo rispetto) mi chiedo se alcuni di questi lamentatori non siano intrappolati in una spirale autodistruttiva che li allontana dalla felicità che potrebbero conquistare. Quante di queste lamentele sono davvero sentite, e quante una scappatoia? Perché identificarsi con il male, piuttosto che con il bene necessario per sopravvivere? Mi viene in mente la frase che Morgan Freeman dice in uno dei migliori film mai stati prodotti, Le ali della libertà: «O fai di tutto per vivere, o fai di tutto per morire.