“I promessi sposi” di Alessandro Manzoni – Capitolo II

Un nesso tra il latino e la povertà…

Due frasi, apparentemente senza alcun nesso tra di loro, forniscono la materia per una sottile riflessione. La prima frase è pronunciata da Renzo nei confronti del suo curato, don Abbondio, che, per dissimulare i reali motivi soggiacenti al rinvio del matrimonio, comincia a nascondere la propria codardia dietro l’uso della lingua latina:

“Si piglia gioco di me? – interruppe il giovine. – Che vuol ch’io
faccia del suo latinorum?”.

La seconda frase, invece, è espressa da Perpetua (assistente di don Abbondio), che, apparendo compresa da un moto di affettata compassione, così si rivolge a Renzo:

“Mala cosa nascer povero, il mio caro Renzo”.

Le due frasi, messe insieme, generano altrettante domande: Che uomo è quello che, avendo paura di assumersi le sue responsabilità, approfitta dell’ignoranza di chi piuttosto dovrebbe ricevere aiuto e insegnamento da lui? A cosa serve la compassione nei confronti di un uomo povero, in questo caso povero anche culturalmente, quando non ci si impegna a fornire, a quella stessa persona, gli strumenti per elevarsi da quella condizione di povertà?

L’erudizione è dannosa solo quando non diventa un ponte per l’incontro tra gli uomini e le generazioni. Infatti, se è necessario che ancora oggi ci siano studiosi di una lingua morta come il latino, affinché l’umanità non corra il rischio di perdere il legame con il tesoro culturale trasmesso dalla letteratura latina, parimenti necessita una “cultura della traduzione”. Con quest’ultima si intende non solo il rendere uno scritto antico nelle lingue moderne, ma la capacità di trasmetterne i significati più profondi, al fine di costruire una civiltà genuinamente umana.

Abbondio, Abbondio, che brutta figura hai fatto! Non hai avuto il coraggio di disobbedire al prepotente di turno; se tu fossi stato meno codardo, oggi ti ricorderemmo come esempio di chi sa rendere giustizia alla propria coscienza, e a chi è reso povero da una società che sente sempre più il bisogno di sottomettere qualcuno da tenere in scacco. E tu, Perpetua, con quale grado di sicurezza potresti asserire che le hai provate davvero tutte per convincere il tuo superiore riguardo al bene da farsi, e che non hai attaccato, come si dice, l’asino dove vuole il padrone?

V’immagino, entrambi, muti e costernati: Tu, Abbondio, con l’espressione imbarazzata di chi sa benissimo che al povero Renzo avresti potuto dire, dopo avergli spiegato la situazione, di presentarsi con la sua Lucia senza abiti da cerimonia né alcunché che potesse destare sospetto, e di rispondere semplicemente a delle domande poste e risposte in una lingua per loro incomprensibile, ma con sentimenti che significassero e realizzassero la celebrazione del loro amore. Tu, Perpetua, con gli occhi bassi di chi avrebbe potuto fare almeno qualcosa in più; per esempio, proporsi di far da testimone all’amore dei promessi sposi, impegnandoti a custodire il loro segreto.

Se solo tu fossi stato più uomo, signor curato, oggi tutti apprezzerebbero il tuo latinorum, compresi i novelli, odierni “Renzo e Lucia” che vedono, in qualche modo, ostacolato il loro amore. Se solo tu fosti stata più donna, signora perpetua, la storia avrebbe avuto un perpetuo ricordo di te come di chi i poveri non li compiange ma li rende, se non migliori, almeno pari a sé. Se solo aveste incontrato persone ricche in un’umanità, cari Renzo e Lucia, la vostra povertà materiale e culturale, avrebbe potuto avere, i caratteri di un amore che segue le regole grammaticali dell’essenzialità, di quella semplicità che si traduce nella promessa di una sponsalità narrante.

 

 

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