“I promessi sposi”, di Alessandro Manzoni – Capitolo XVIII

L’amore è tutto…
Il romanzo manzoniano, in questo nuovo capitolo, trasporta il lettore/la lettrice nel luogo dove si trova Lucia, custodita da Gertrude, la monaca di Monza. Come in ogni relazione, inevitabilmente, nasce un confronto con il proprio interlocutore, così anche Lucia comincia a specchiarsi nella sua interlocutrice e il risultato è quello evidenziato dalla seguente frase:
“Era perché alla povera innocente quella storia pareva più spinosa, più difficile da raccontarsi, di tutte quelle che aveva sentite, e che
credesse di poter sentire dalla signora. In queste c’era tirannia, insidie, patimenti; cose brutte e dolorose, ma che pur si potevan nominare: nella sua c’era mescolato per tutto un sentimento, una parola, che non le pareva possibile di proferire, parlando di sé; e alla quale non avrebbe mai trovato da sostituire una perifrasi che non le paresse sfacciata: l’amore!”.
Al timore reverenziale provato da Lucia nei confronti della “signora”, ovvero Gertrude, e dei discorsi da lei fatti, si aggiunge anche la paura di esprimere i suoi veri sentimenti. Il confronto segue l’onda di questa paura che fa sembrare impossibile a Lucia di poter aprire tutto il suo cuore; sembra quasi che Lucia tema di poter scandalizzare la monaca, nonostante che questa avesse già condiviso, chiamandole per nome, esperienze che avevano lasciato trasparire il lato peggiore dei rapporti fra gli esseri umani: tirannie, insidie, e quel patire, conseguenza di svariate forme di brutture e di dolore.
Sembra strano, ma Lucia sembra quasi scorgere qualcosa di “bello” in tanto squallore; questa “bellezza” consiste proprio nella capacità di Gertrude di saper dare un nome, un titolo preciso, alle sue narrazioni autobiografiche. Lucia, invece, si autocensura, perché si accorge che tutte la frasi di quel racconto, che pur il suo cuore vorrebbe come partorire dalle sue labbra, le resta serrato in gola, perché tutto resterebbe privo di significato senza pronunciare una parola che, se detta, avrebbe potuto farla sentire sfacciata o anche ridicola al cospetto di Gertrude.
Lucia, in quel preciso momento, probabilmente, si era accorta che i suoi discorsi non avrebbero potuto cominciare, continuare e concludersi senza proferire la parola “amore”. Il suo blocco nasceva, dunque, da quella sua diversità di approccio all’esperienza relazionale, che la faceva sentire quasi ingenua, o addirittura sbagliata, nel considerare l’amore come il tutto della sua vita. Tolta questa parola, che non era in lei qualcosa di teorico, di retorico, ma una realtà concretissima, che sostanziava la sua stessa esistenza, Lucia non avrebbe potuto tenere insieme e portare a compimento nessuna frase e, per questo, resta chiusa in una sorta di mutismo selettivo.
Cara Lucia, non sei sola! Non pensare di essere “strana” perché credi in un amore che dia senso, sostanza e sostegno ai tuoi giorni; forse alcune frasi della canzone “Quello che comunemente noi chiamiamo amore”, potrebbero incoraggiarti: se puoi, ascoltala. Fammi sapere se poi trovi sinonimi più efficaci di “amore” per esprimere quel “tutto” dal quale ti senti generata, desiderata, circondata, accompagnata e destinata: la più bella perifrasi della tua biografia narrante.

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2 risposte

  1. Molti non riescono a dare un nome a quel tutto. Paura? Inconsapevolezza? I buoni libri possono aiutarci a riconoscere le nostre emozioni e i nostri sentimenti. Grazie di questo supporto alla conoscenza della parte più intima di noi.

  2. Grazie. Grazie anche per il tuo contributo a queste riflessioni e per il tuo apporto al Blog di Vite Narranti. Che ciascuno possa scoprire e sperimentare la realtà presente dentro ogni nome…

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